Le pratiche di urban commoning come risposta alla violenza di genere nello spazio urbano: le esperienze della città delle donne
La “questione” dei beni comuni ha acquisito una cogenza e una popolarità di grande rilievo negli ultimi vent’anni. Un interesse crescente da parte di intellettuali, istituzioni e cittadini. Si sono moltiplicati i beni che vengono ascritti alla categoria di beni comuni, così come si sono moltiplicate le azioni legate alle rivendicazioni di spazi, luoghi, beni, saperi quali oggetti materiali e immateriali fondamentali per la riproduzione sociale e destinati ad un uso collettivo. Da un lato, il tema dei beni comuni, e successivamente delle pratiche di urban commoning, emerge come risposta collettiva derivante da una profonda critica al sistema economico dominante, ai soggetti della rappresentanza politica e alle modalità di gestione delle amministrazioni pubbliche. Contemporaneamente, il fiorire di esperienze di cittadinanza attiva, come modalità concrete di cura dell’interesse generale, portate aventi nelle esperienze di amministrazione condivisa può rappresentare un’occasione per ripensare il rapporto tra cittadini e istituzioni attraverso il principio di sussidiarietà. Dall’altro, l’abbandono dei sistemi redistributivi, che per quasi l’intero secolo scorso hanno attenuato le disuguaglianze sociali, il trionfo del neoliberismo e dell’idea di individuo e di società che esso sottende ha accentuato le disuguaglianze e le ingiustizie che caratterizzano la società capitalista. La crescita delle disuguaglianze sociali, spaziali e ambientali rappresenta uno degli aspetti più rilevanti della nuova questione urbana. Di pari passo all’aumento delle disuguaglianze si è assistito ad una sempre maggiore pluralizzazione delle forme di vita che ha reso il sistema culturale della città contemporanea non delineabile in modo preciso e caratterizzato da una crescente complessità. La società contemporanea porta i segni della modernità: ibrida, diversificata, pluralistica e contestata. Emerge così complessivamente un bisogno di giustizia sociale nella città che cambia e le questioni di giustizia sono (nuovamente) viste come chiavi di lettura e come orientamento per l’azione, per agire nella città (in crisi) e interpretarla.
In questo contesto si inserisce la presente ricerca che ha come obiettivo di domandarsi se le pratiche di urban commoning, che nascono a partire da una riflessione sui beni comuni, sono in grado, e in che modo, di offrire una risposta alle istanze di giustizia sociale nello spazio urbano attraverso la riproduzione di beni comuni e all’esigenza di una maggiore coesione e legame sociale, attraverso l’etica della cura.
In maniera sempre più consistente le città, infatti, sono diffusamente attraversati da processi di commoning, auto-organizzazione, azioni di rivendicazione, che vedono nella (ri-)appropriazione e gestione di beni e servizi urbani il modo per riconoscere, ampliare e ridefinire alcuni diritti fondamentali, attraverso la trasformazione dello spazio urbano. Queste esperienze sono spesso orientate alla gestione condivisa di beni e servizi urbani e rappresentano processi di costruzione/trasformazione della città come tentativi di superamento della tradizionale separazione tra Stato, privato e comunità.
Il lavoro di ricerca si occupa delle pratiche di urban commoning affrontando il tema della violenza di genere nello spazio urbano a partire dall’analisi delle pratiche che le esperienze dei movimenti femministi hanno messo in campo nella costruzione dei luoghi delle donne rileggendole come pratiche di urban commoning, mettendo in evidenza il contributo teorico e pratico che le esperienze femministe hanno introdotto attorno al tema dei commons. A partire dalla ricostruzione delle pratiche messe in campo dai movimenti femministi nella città di Roma il lavoro di ricerca mostra in che modo, un insieme eterogeneo di esperienze femministe, che vanno dai centri antiviolenza, associazioni, collettivi informali, case delle donne, case rifugio, spazi autogestiti, movimenti quali “Non una di meno” e reti di associazioni tematizzano una domanda di giustizia sociale e producono forme di risposta alla violenza di genere nella città praticando l’etica della cura assumendo la natura di pratiche di urban commoning. Il lavoro analizza il modo in cui queste esperienze perseguono i loro obiettivi, attraverso quali metodologie, sistemi di valori, forme di decisione e organizzazione, tipi di attività, capacità, spazialità e materialità, reti di relazioni vengono concretamente agite e praticate la giustizia sociale e l’etica della cura. La ricerca mostra come l’interazione e la produzione di sapere e capacità tra queste esperienze sono in grado di trasformare lo spazio urbano, di mettere in discussione le politiche pubbliche attorno alla violenza di genere e dimostrare come la relazione tra esperienze formali e informali costituisca un importante laboratorio di sperimentazione e apprendimento per le istituzioni nel dare risposta a tali domande di giustizia sociale costruendo differenti forme di welfare (urban commoning) in cui è proprio la relazione tra giustizia sociale e la messa in pratica dell’etica della cura a consentire un processo di emancipazione sia individuale che collettivo. Sono stati selezionati tre differenti casi studio che rappresentano a loro modo tre differenti forme di pratiche di urban commoning che affrontano il tema della violenza di genere nello spazio urbano e che risultano essere rappresentative dei due diversi paradigmi in cui le pratiche di urban commoning si manifestano urbano: quello della città ribelle e quello della città condivisa.
I tre casi studio considerati vengono inseriti all’interno di una prospettiva storica che ricostruisce le esperienze del movimento femminista degli anni 70 a Roma nella loro capacità di costruire i luoghi delle donne seconde tre diverse traiettorie: i consultori, i centri antiviolenza e le case delle donne. In queste esperienze si possono rinvenire alcuni degli elementi caratterizzanti le pratiche di urban commoning. In particolare, nasco e agiscono nello spazio a partire da un’azione di rivendicazione di diritti e bisogni fondamentali, beni materiali e immateriali indispensabili per il libero sviluppo della persona, per soddisfare i bisogni collettivi e garantire la riproduzione sociale. Tali pratiche si manifestano a partire dalla relazione tra una comunità, un insieme di beni materiali e immateriali e una particolare forma di agire che è l’agire in comune. Queste pratiche inoltre definiscono e sperimentano anche i modi di utilizzo, produzione e riproduzione dei beni comuni e dello spazio urbano attraverso forme democratiche e orizzontali di gestione. Tutte e tre queste esperienze vengono indagate storicamente mostrando come tali esperienze nascano come pratiche di urban commoning secondo la prospettiva della città ribelle ma che nel tempo hanno subito un processo di progressiva istituzionalizzazione diventando nel caso dei Centri Antiviolenza e dei Consultori elementi del sistema del welfare istituzionale iscrivendosi secondo modalità diverse nella prospettiva della città condivisa, mentre il caso della casa delle donne Lucha y Siesta si inserisce all’interno della prospettiva della città ribelle intercettando il tema dei beni comuni emergenti come spazi di autonomia nello spazio urbano.
Collaborazioni
PhD visiting presso l’Istituto di Governo e Politiche Pubbliche (IGOP) dell’Università Autonoma di Barcellona (UAB)